Lo chef americano Harold Villarosa, paragona le gerarchie delle brigate delle cucine a quelle militari, tra violenze e vessazioni. In una lettera aperta, l’executive chef spiega perché sia necessario ridisegnare completamente il sistema di brigata immaginato da Auguste Escoffier
Durante la quarantena imposta agli italiani per contenere i contagi da COVID-19, una buona fetta di popolazione si è dedicata alla preparazione di prelibatezze di ogni genere, sospinta anche da una sempre più presente figura di cuochi e programmi culinari nei palinsesti televisivi. Ma l’ambiente della ristorazione è proprio così accogliente ed alla portata di tutti?
L’excutive chef (responsabile di tutti gli altri chef funzionali in cucina) Harold Villarosa racconta come sia arrivato alla mentalità che possiede attualmente, come abbia sfruttato le risorse che lo circondano per realizzare i suoi sogni e cosa sia possibile quando la giusta etica del lavoro e il cuore sono applicati alla propria passione.
Ma c’è di più: il capo cuoco denuncia un certo atteggiamento prevaricatore ampiamente diffuso tra le “brigate” (l’insieme di tutto il personale di cucina, sia operatori qualificati che apprendisti, che opera nella preparazione professionale di vivande) di tutto il mondo. Un sistema gerarchico paragonabile a quello di un esercito, che crea discriminazione sociale e razziale, non lascia spazio alle donne e consente a brutalità, violenza e bullismo di dilagare. Un mondo di soprusi dove regnano sciovinismo, eccessiva ambizione e voglia di arrivare a qualunque costo. Questo modello risale agli insegnamenti di Auguste Escoffier, grande cuoco francese, stretto collaboratore di Cèsar Ritz (noto imprenditore svizzero e fondatore dell’omonima catena di alberghi) e scrittore di vari libri sia di cucina che riguardanti l’organizzazione della stessa. La descrizione del mondo della cucina fatta nella sua lettera aperta inviata al sito Fine Dining Lovers dallo chef Villarosa, è a dir poco angosciante. Un ambiente che deve necessariamente adeguarsi ad alcuni cambiamenti già in atto tra chi ha preso coscienza delle difficoltà vissute quotidianamente dai membri di una brigata di cucina.
L’allarme è partito da Copenhagen, già nel 2015, dal re della cucina nordica, René Redzepi. Che dalle pagine della rivista Lucky Peach ha confessato il suo passato di chef bullo: “Ho urlato, ho spinto, ho mandato a casa le persone. Una sera ho passato il limite, ho trattato malissimo una ragazza della brigata. E ho capito che dovevo smettere”. Il lungo mea culpa introduce il cuore della questione: come si può cambiare la cultura del lavoro nei ristoranti, da sempre ambienti duri, irrispettosi, militareschi? L’obiettivo del dibattito è chiaro: liberarsi della vecchia scuola, quella secondo la quale il giovane cuoco deve soffrire le peggiori angherie. Anche perché, scrive Redzepi, le maniere brutali della maggior parte dei ristoratori sta cancellando una generazione di chef: “Quanti dei vostri dipendenti hanno 32, 33, 34 anni? — chiede nella lettera ai colleghi — Sempre meno. Perché a quell’età gli chef mollano, certi affronti non li tollerano più”. Basti pensare al caso scoppiato in Francia nel novembre 2014: l’assistente chef del Pré Catelan, ristorante tre stelle Michelin di Parigi, è stato licenziato per aver bruciato più volte la mano di un apprendista con un cucchiaio incandescente. Negli stessi giorni, in Italia, un ex dipendente del ristorante Eataly di Roma ha cercato di accoltellare lo chef suo capo per le ingiurie e i maltrattamenti che gli avrebbe fatto subire: “Per colpa sua mi sono dovuto dimettere”, ha raccontato il 24enne, un rifugiato afghano, alla polizia. E in gennaio a Rimini un giovane apprendista, gay non dichiarato, sarebbe stato costretto dallo chef del locale ad avere rapporti con una prostituta per dimostrare la sua virilità. Senza arrivare a questi estremi, l’italiano Simone Zanoni , chef pluristellatto, racconta di essere stato trattato malissimo da Gordon Ramsay durante la gavetta all’Aubergine di Londra.
Per Carlo Cracco la questione è un po’ esasperata: “Certo, lavorare in un ristorante non è una passeggiata. Ma se uno non si trova bene, prende e se ne va. Il problema secondo me non è il bullismo, ma le condizioni di lavoro: gli apprendisti fanno turni troppo lunghi e sottopagati, è lì che bisogna intervenire”.
Soprusi, sessismo, coltelli branditi, molestie fisiche e verbali, derisioni e, a volte, esclusione. Tutto questo nelle cucine esiste, non sempre, ma esiste ed è qualcosa che va affrontato e parlarne e senz’altro un inizio.
(Giuseppe Franchina)