Se molti di noi hanno sofferto il periodo di blocco per motivi sanitari, ci sono altrettante persone che da molto tempo hanno scelto l’isolamento come condizione permanente. Non studiano, non lavorano, non vivono fuori dalla propria stanza. In Giappone li chiamano “Hikikomori”, in Inghilterra “Neet”.
Angelica Giordano (in collaborazione con Alganews)
Analisi di un fenomeno, ormai globale
“Hikikomori” in giapponese significa letteralmente “stare da solo”. “Neet” in inglese, è l’acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, cioè persone che non lavorano, non studiano e difficilmente escono di casa. Entrambe le parole vengono usate per descrivere un fenomeno nato in Giappone, ma sempre più presente nel mondo.
Del fenomeno Hikikomori, se ne inizia a parlare nel Giappone degli anni Ottanta, quando la Potenza stava entrando a gamba tesa in molti dei mercati internazionali ed il Giappone incrementava la sua forza con l’aiuto della popolazione, instillando il credo per cui la felicità personale si raggiunge solo al massimo della propria realizzazione lavorativa. Le stime degli Hikikomori presenti nel paese salirono vertiginosamente tra gli anni Novanta e i primi Duemila: inizialmente erano centinaia di migliaia di persone, in seguito se ne calcolavano già più di un milione.
Nonostante il fenomeno non sia ancora riconosciuto ufficialmente come psicopatologia, la psicologia sociale ha provato a fornire delle linee guida comuni per gestirlo. La sociologa francese Maia Fansen ha provato a suddividere la figura dell’Hikikomori in quattro differenti tipologie di motivazioni che causano il ritiro: problematiche familiari o relazionali gravi; incapacità e paura di diventare un adulto autonomo; rifiuto verso una società che non lo rappresenta e lo opprime; mancamento del raggiungimento degli obiettivi e delle aspettative prestabilite. Questo studio mostra i comportamenti ricorrenti di queste persone, come l’invertire il ciclo sonno-veglia. Dormire di giorno, quando bisognerebbe invece essere attivi, permetterebbe di provare meno senso di colpa. Molti soffrono di grande ansia e frustrazione dovute alla loro incapacità di stringere relazioni – spesso sono stati vittima di bullismo – o soffrono di una forte depressione esistenziale, prima di entrare nello stato d’inattività.
Si è notato che molti Hikikomori condividono un contesto familiare simile, fattori che sembrerebbero portare ad un risultato conforme e che è presente in Paesi come il Giappone o l’Italia, per il loro tipo di struttura familiare classica. La figura paterna è mancante o poco attenta, mentre la figura materna è eccessivamente protettiva e presente. Il Neet è generalmente maschio figlio unico, di età compresa fra i sedici (in alcuni paesi l’anno della fine della scuola obbligatoria) ed i trentacinque anni, arrivando anche a picchi di sessantacinque anni, per chi è recluso da oltre quarant’anni. I genitori hanno alte aspettative per il proprio figlio, perché è frequente che uno dei due sia laureato o ricopra un ruolo di rilievo nel mondo lavorativo.
Un modello di nucleo familiare, dicevamo, simile a quello italiano, dove più di centomila giovani non escono di casa da almeno sei mesi. Ma il fenomeno è ormai da anni sparso in tutto il mondo, con numeri significativi. Alcuni vivono in questo stato per un periodo più o meno lungo della loro vita. Ma per molti il fenomeno si cronicizza. È sicuramente un importante problema sociale da risolvere: non essendo attivi, questi individui non producono. Un vero blocco psicologico li fa sentire inutili, inadatti e non amati. Non si piacciono e odiano il mondo esterno per averli portati a questo punto. Sono prigionieri di loro stessi, intrappolati nella loro stanza, dove passano tutto il loro tempo. Ma la loro trappola è anche la loro salvezza: lì nessuno li può giudicare, ferire. Sanno cosa significa il loro ritiro, si colpevolizzano per questo. Ma più passa il tempo da isolati e più avranno paura di confrontarsi con il mondo esterno.
La maggior parte dei Neet è dipendente da Internet, il loro unico modo per essere connessi con l’esterno e una soluzione per passare il tempo. Possono giocare, utilizzare lo streaming o navigare in Rete. I videogiochi permettono di crearsi una vita parallela in cui rifugiarsi. Lì possono essere gli eroi capaci che non credono di essere nella realtà. In Internet i forum pullulano di giovani con lo stesso problema. Mettersi in contatto, sfogarsi e confrontarsi, potrebbe essere un primo passo verso la guarigione.
In Italia e nel mondo, il problema dovrebbe essere preso in seria considerazione. Con l’avanzare della tecnologia e della scarsità del lavoro, infatti, i Neet aumenteranno sempre di più.
La confessione di Giuseppe: “Ho sviluppato un forte disprezzo verso il genere umano
Grazie al sito Fobiasociale.com – un forum che permette in modo sicuro il dialogo fra persone con problematiche diverse, ma in comune con altri iscritti –, abbiamo potuto ascoltare la storia di Giuseppe, un ventenne campano che ha deciso di rinchiudersi volontariamente in casa. “Tutto è iniziato dalle scuole medie – inizia a raccontare Giuseppe –, dove la mia incapacità di difendermi dai bulli mi ha reso una vittima sempre più appetitosa. Il loro divertimento era prendersi gioco di me, causandomi forte ansia, palpitazioni, tachicardia e tremore ogni volta che me li trovavo davanti. Era la paura di essere deriso un’altra volta. Ancora e ancora, ogni giorno”.
Giuseppe ci spiega che al liceo non è stato più vittima dei bulli, ma ormai i segni lasciati dal passato non gli permettono di allacciare rapporti duraturi. Si trova spesso da solo, l’unica compagnia sono i cugini più piccoli.
Finita la scuola, pare aprirsi uno spiraglio; prende la patente ed inizia ad uscire i sabati sera. Entra anche a fatica nel mondo degli adulti come barman, ma il lavoro non era adatto a lui: “Ero incapace di lavorare, dialogare, di tenere ‘botta’ con i clienti”. Sfuggito al lavoro, Giuseppe fugge anche di casa per un periodo, fino a far arrivare la nostra storia a poco prima della pandemia da coronavirus. “Prima della quarantena ho iniziato parallelamente due percorsi terapeutici, uno privato ed uno pubblico. Mi sono stati diagnosticati più disturbi mentali, come il disturbo evitante di personalità, il disturbo psicotico e quello bipolare ed ossessivo. Per un po’ ho preso le medicine, ma ho smesso, non sentivo che mi apportavano alcun beneficio psicofisico”.
All’inizio dell’emergenza coronavirus, lui come tanti altri, prende la palla al balzo per rinchiudersi nelle quattro mura della propria cameretta. Non esce da mesi e consuma i propri pasti in camera. La quarantena su di lui ha influito moltissimo, l’occasione irripetibile di sbarrarsi definitivamente in casa, con tutte le scusanti del caso. Giuseppe scherzosamente chiama la sua stanza “il suo covo”: “Già da piccolo si avvertivano i primi sintomi di un bisogno di reclusione, passavo le estati, ma anche le intere giornate invernali, a giocare con la Playstation in camera. Ero interrotto solo dalla scuola e dalle uscite con i miei genitori”. I genitori non capiscono da subito il motivo di questa scelta, erano arrabbiati e preoccupati per lui, ma hanno iniziato ad essere più comprensivi dopo vari avvenimenti, fra cui il riconoscimento dei suoi disturbi e la fuga sopracitata.
Giuseppe ci racconta la sua giornata tipo:
Le mie giornate sono monotone nella maniera più assoluta. Mi sveglio e passo tutta la giornata immerso fra TV, Internet e videogiochi. I miei rapporti con le persone sono per lo più virtuali e con gente che non conosco personalmente. Uso spesso i forum per comunicare, ma non mi farei mai vedere su Facebook o Instagram”.
Di storie come la sua, ce ne sono tante. Tutte diverse, ma che portano allo stesso risultato. Persone potenzialmente talentuose come Giuseppe, che aveva delle aspirazioni come calciatore, barman o – perché no? – come modello. Ha sempre avuto molta cura del suo aspetto e, prima di rinchiudersi, era importante per lui apparire sempre al meglio. Al momento le aspirazioni sono sparite, il mondo esterno le ha annichilite: “Non sono mai stato un tipo deciso o con il pugno fermo. La mia stessa fobia sociale mi ha impedito di avere il coraggio di fare o dire le cose, sono sempre cresciuto nella paura di essere scoperto o sospettato dei miei errori, dei miei disturbi. Solo il pensiero che le persone si rendessero conto della mia incapacità, mi faceva star male, quindi ho iniziato a fare sempre meno attività. Non avrei sopportato altre prese in giro, quindi semplicemente mollavo. I miei disturbi psichici hanno fatto tutto il resto: mi hanno causato depressione, sbalzi d’umore, misantropia e gesti compulsivi, come rituali ed ossessioni”.
Nella propria casa, Giuseppe ha visto la salvezza di cui aveva bisogno, “Ho le mie cose, tutto ciò di cui ho bisogno, non devo dar conto a nessuno e posso tenermi lontano dalle pressioni sociali e dai pericoli. Ho creato il mio mondo parallelo, dove mi sento al sicuro. Fino a qualche mese fa, ogni tanto uscivo, frequentavo una cooperativa ed in questi mesi avrei avuto la possibilità di un nuovo lavoro. La quarantena mi ha portato alla decisione – al momento sembrerebbe definitiva ed irreversibile – di troncare tutti i contatti con il mondo esterno. In questo periodo, dopo una lunga fase di rassegnazione e finalmente anche di benessere, ho sviluppato un forte disprezzo verso il genere umano. Io li ho sempre visti, ma loro non hanno mai visto me”.