BoJack Horseman, Jim Carrey e Chester Bennington: tre personaggi, uno fittizio, uno reale e l’altro realmente esistito che, a loro modo, hanno riacceso i riflettori su una condizione poco considerata come una malattia.
Occhi bassi, spalle curve, osservare il mondo circostante con colori tenui e cupi. Questa potrebbe essere una descrizione semplificata del punto di vista di un individuo affetto da depressione, una condizione moderna presa fin troppo sotto gamba. Si tratta di una malattia psichiatrica che disturba il normale equilibrio dell’umore di una persona. Le sue caratteristiche peculiari sono riscontrabili in frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza per le proprie attività quotidiane, costanti episodi di malumore e ricorrenti pensieri negativi riguardo se stessi e il proprio futuro.
Generalmente, la depressione ha origine dall’incapacità di accettare una perdita e un lutto personale o il non esser riusciti a raggiungere un proprio scopo, vissuto come un fallimento insormontabile. L’intensità della condizione è molto più forte al mattino, mentre nel corso della giornata tende a migliorare, ma questo dipende dai casi.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) diffusi nell’aprile del 2017, la depressione è la principale causa di malattie e disabilità nel mondo, la cui diffusione è cresciuta di quasi il 20%: sono ben 322 milioni di persone ad esserne colpite (4,4% della popolazione mondiale). Inoltre, questa condizione è un alto fattore di rischio per il suicidio, una scelta che, ad esempio, nel 2015 è stata effettuata da 788.000 persone.
A livello clinico, i disturbi depressivi vengono suddivisi in due gruppi di famiglie con relativi sottogruppi: disturbi depressivi e disturbi bipolari. Nel primo insieme, abbiamo il disturbo depressivo maggiore (si presenta come un episodio singolo o ricorrente), il disturbo distimico (caratterizzato dal ricorrere di episodi depressi di bassa gravità – il paziente non mai di umore normale per più di due mesi consecutivi) e il disturbo depressivo non altrimenti specificato (categoria che non soddisfa i criteri elencati precedentemente, come il disturbo disforico premestruale); nel secondo, invece, abbiamo il disturbo bipolare di tipo I (caratterizzato da almeno un episodio di mania o misto), di tipo II (caratterizzato solo dall’ipomania) e il disturbo ciclotimico (ha durata minima di 2 anni, senza fasi di benessere di durata superiore ai due mesi e nel quale gli episodi depressivi non sono mai di gravità analoga a quella degli episodi maggiori o maniacali, quindi sono sempre ipomaniacali).
Assieme all’Oms, anche lo studio coordinato da Alize J. Ferrari dell’Università di Queensland (Australia) afferma quanto detto precedentemente. La ricerca – come riporta Harmoniamentis.it – ha esaminato il numero “di anni vissuti con disabilità a causa della depressione maggiore e della distimia (condizione caratterizzata dalla presenza di sintomi depressivi moderati, ma persistenti nel tempo) e il ruolo di queste due condizioni quale fattore di rischio per suicidio e infarto. In base ai calcoli effettuati a partire dagli studi epidemiologici pubblicati nella letteratura scientifica nel ventennio 1990-2010, la depressione maggiore nel 2010 era la seconda causa di anni vissuti con disabilità, rendendo conto, da sola, di ben l’8,2% degli anni vissuti con disabilità a livello globale, cui si aggiungeva un ulteriore 1,4% derivante dalla distimia. Anche dopo aver ripulito i dati da possibili fattori confondenti, il peso di depressione maggiore e distimia nel determinare disabilità rimaneva rilevante, variando in relazione all’area geografica considerata nel primo caso, ma molto poco nel secondo”.
Ci pensa ancora l’Oms a rincalare la dose, affermando che entro il 2020 i disturbi dell’umore diventeranno la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari. Un campanello di allarme non di poco conto, visto che i disturbi della sfera mentale hanno un’incidenza significativi soprattutto nelle persone con disabilità rispetto alla popolazione generale.
Comunque, è possibile parlare di depressione in modi meno tecnici. Lo sanno bene quelli di Netflix che, nel 2014, hanno prodotto BoJack Horseman, una serie televisiva animata creata da Raphael Bob-Waksberg e disegnata da Lisa Hanawalt che narra le vicende della città di Hollywood nella quale regna la convivenza tra personaggi umani e animali antropomorfi. Protagonista assoluto è BoJack, una star della sitcom degli anni novanta Horsin’ Around, non più sulla cresta dell’onda, intento a riottenere la fama persa. Tra le varie sfaccettature, la storia racconta la parabola discendente del cavallo umanizzato nella depressione, nell’abuso di alcool e droga e, infine, nell’autodistruzione e autocommiserazione. Di fronte a noi, vediamo un personaggio preda delle sue angosce, delle sue paure, dei suoi sbagli. Lo vediamo scoraggiato, alle volte annichilito, davanti a ciò che è e ciò che poteva essere. Legami si disgregano, certezze si allentano, in un eterno oblio di frustrazione. E BoJack diventa il simbolo di un uomo incapace di vivere all’interno della società attuale.
Nella vita reale, invece, Jim Carrey ha voluto essere più diretto. Complice anche le vicende legate al suicidio della sua fidanzata, Cathriona White (i cui familiari hanno accusato l’attore per la morte della donna), negli ultimi tempi la spumeggiante maschera verde non ha dato segnali di grande felicità, lasciando intendere spesso uno stato d’animo abbastanza cupo: “Niente di tutto questo ha un significato”, dichiarò a un red carpet. In alcune dichiarazioni, l’attore non nascose mai la sua depressione, ammettendo di vivere momenti molto infelici nella sua vita, fino a una sua recente intervista per CBSNews, nella quale ha voluto rassicurare un po’ tutti i suoi fan: «A questo punto non ho più la depressione. Non ho esperienza di depressione. Ne ho sofferto per anni, ma ora quando la pioggia arriva non rimane troppo a lungo. Non affogo più, non resta dentro di me così a lungo”.
Infine, Chester Bennington ha voluto mostrare – indirettamente – al mondo intero quanto la depressione possa essere mortale. Da anni l’ex frontman dei Linkin Park lottava contro droghe, alcool e quella malattia nata da un’infanzia complessa e drammatica: il 20 luglio 2017, però, Bennington si tolse la vita nella sua residenza a Palos Verdes Estates, in California. Eppure, trentasei ora prima del suo suicidio, Chester sembrava felice, e a testimoniarlo c’è un video condiviso su Twitter da Talinda, l’ex moglie, nel quale il frontman gioca serenamente con il proprio figlio. Il suo caso espone quanto la depressione sia silente agli occhi esterni, quanto l’urlo di dolore possa essere calmo, tranquillo e muto da far male.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante