“La carica dei 104” (il numero ricorda la legge che tutela i diritti delle persone con disabilità). Una rubrica che, mensilmente, intende fornire ritratti di personalità che non si sono abbattute e, superando ogni avversità, hanno raggiunto il successo in ogni campo: arte, cultura, sport, spettacolo. Speriamo che questa raccolta di storie sia di buon auspicio per tanti, giovani e adulti, che non riescono ancora a trovare la forza di emanciparsi. Andrea Desideri, che curerà questo spazio, racconta il poeta Pierluigi Cappello.
Le parole sono importanti e fanno la differenza, malgrado quel che si dice o si pensa. Sono spesso abbinate al soffio del vento, durano tanto o poco, a seconda della provenienza. Nella loro diversità sono così univoche ed intense, possono cambiare uno stato d’animo, descrivere una situazione e persino rappresentare una persona. Possono essere urlate, sussurrate, riferite, storpiate e perfino scritte. Quando una parola viene scritta diventa un pensiero, un’opinione, un ideale che da aleatorio diviene tangibile. Una parola scritta è la presa di coscienza dei propri intenti, l’ufficialità delle proprie intenzioni, la consapevolezza di uno stato d’animo. Se qualcuno si ritrova a scrivere è per convinzione, sfogo e piacere. Sicuramente è mosso da qualcosa che lo tiene sveglio la notte e lo attanaglia durante il giorno: un tacito tumulto che trova sfoggio fra le pieghe di un foglio di carta e le gocce dell’inchiostro. Per i più moderni, c’è la tastiera del pc e un documento Word. La sostanza, però, non cambia: le parole restano lì, scritte, impresse, anche dopo anni, secoli, governi e stagioni. Durano più dei loro autori, sfidano il tempo nell’attesa dell’eternità.
Per questo chi scrive è implicitamente legato a un patto d’onestà con il lettore, vale per i giornalisti (anche se ogni tanto alcuni tendono a dimenticarlo) e ancor di più per gli scrittori. Autori e poeti del proprio destino, con una sensibilità superiore alla media, quelli che passano le giornate sui libri, affascinati dalle biografie di loro colleghi che rappresentano la loro epoca con un verso per non finire di traverso. Quindi, ogni volta che si compone qualcosa, ogni istante che un compositore sceglie di imprimere su carta, deve essere vero. Perché se dovesse scrivere cavolate, o peggio: amenità, alla lunga verrebbe scoperto. E per chi millanta d’esser una penna d’oro, la credibilità è tutto (o quasi). Dunque, le parole sono armi, strumenti che plasmano la realtà. Ecco perché ancora oggi, nonostante gli smartphone e il progresso dei pc, assistiamo imperterriti a turisti che, in vacanza, sono soliti scrivere “Ti amo” sulla sabbia. Poco importa se le onde lo porteranno via, resterà comunque lì, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Tutto passa, tranne la forza della scrittura.
I poeti ce lo ricordano, anche senza farsi ricordare. Infatti, come capita con le belle canzoni, spesso sappiamo le parole e non chi le ha scritte. Questa è la missione del poeta: restare immortale, nonostante la precarietà della natura, con la propria penna capace di attraversare epoche come un passpartout. Lo ha fatto anche Pierluigi Cappello, scomparso il primo ottobre. Ha saputo raccontare e descrivere il proprio vissuto con educazione, accompagnato sempre da quell’umiltà che lo faceva comunque restare un passo indietro, persino quando si metteva a nudo componendo versi che lo riguardavano personalmente. Un libro, tra le tante raccolte poetiche, una biografia dal taglio profondo che ripercorreva a tappe un’esistenza variegata con la delicatezza di chi è consapevole d’essersi spinto al massimo delle sue possibilità. Molti conoscono (e riciclano) attualmente i suoi versi sotto le foto, come testimoniano le migliaia di commemorazioni social per la sua dipartita. “Questa libertà” è una summa di intenti e ambizioni di un uomo fortificato attraverso la resilienza del proprio vissuto, intaccato – per così dire – parzialmente da una disabilità causata da un incidente in moto. “Non sentirà più la pressione del suolo sotto i suoi piedi, non sentirà più scorrere l’acqua sulla sua pelle in tre quarti del suo corpo, né il vento né carezze, né baci”. Una mancanza improvvisa colmata con la poesia e con la parola, che come una catarsi ci ricorda quanto ancora possiamo fare malgrado tutto. Un poeta non è altro che un alimentatore di speranze in mezzo al grigiore delle certezze. Leopardi col pessimismo ha colto l’essenza di un periodo buio, cercando di resistere nonostante le avversità. Cappello ha “vestito” una generazione con la morbidezza dei suoi versi, restituendoci lo sguardo di un bambino che torna agli spazi segreti e luminosi, ai luoghi lontani, ai paesaggi interiori, immaginati attraverso i libri. Una formazione, la sua, che ci ricorda costantemente quanto ogni emozione sia un dono da coltivare piuttosto che un fardello da portare.
Articolo di Andrea Desideri