Paolo Ruffini, che abbiamo visto recentemente in veste di giudice al programma targato La7 “Eccezionale veramente” – il primo talent show a stampo comico –, è anche attore (ha lavorato con Vanzina, Brizzi, Virzì e De Biase, per fare qualche nome) e regista (ha diretto nel 2013 “Fuga di cervelli” e nel 2014 “Tutto molto bello”). Persino a teatro trova soddisfazione, infatti, oltre ai suoi show comici – come, ad esempio, il “Paolo Ruffini Show” – sta portando in giro “Un grande abbraccio”: la rappresentazione teatrale, scritta insieme a Lamberto Giannini, vede la partecipazione di attori con disabilità, precisamente con sindrome di Down. L’ex conduttore di “Colorado” ci ha parlato di questo progetto, che coinvolge la compagnia Mayor Von Frinzius, e del suo approccio con la disabilità. C’è stato spazio per parlare anche dei suoi impegni futuri che lo vedranno protagonista al cinema con due film: “I babysitter” e “Natale a Londra”.
Tu sei un attore in grado anche di far ridere, secondo te la comicità italiana sta attraversando un buon periodo oppure no?
Secondo me la comicità italiana sta attraversando un bel periodo dal punto di vista commerciale, nel senso che – anche grazie a Checco Zalone – abbiamo visto tante persone tornare al cinema, riempire le sale, per andarsi a divertire e questa è una cosa molto importante. Credo che, però, non stia attraversando un bel momento l’ironia italiana perché purtroppo è sempre più difficile trovare persone che stanno allo scherzo, che magari si mettono in discussione avendo voglia di fare battute, insomma; una volta si poteva scherzare su tutto, oggi non si può scherzare su tutto, bisogna sempre stare attenti perché siamo diventati un po’ più bacchettoni e anche un po’ più bigotti da un certo punto di vista. Io trovo che trent’anni fa, quando in televisione c’era Drive In e non c’erano i social network, vi era molta più libertà e nei cinema trasmettevano anche quel tipo di commedia che a me piace tanto: quella commedia più stracult, anche scorretta, scollacciata, boccaccesca, così come c’erano commedie di alto genere. Quindi si poteva trovare sia Alvaro Vitali e Bombolo, ma anche Mastroianni e Tognazzi. Oggi tutta quella fascia appartenente alla cosiddetta comicità di serie b è un po’ sparita, siamo tutti un pochino più perbenisti, però ci vogliamo ancora divertire come un tempo non solo al cinema o in televisione, ma anche nella vita. Io spero che si possa nuovamente tornare a scherzare su ogni cosa, a divertirci e soprattutto a rilassarci un po’. Perché se c’è un aspetto su cui non si può ridere, qualcosa non va.
Ti abbiamo visto nei panni di giudice in “Eccezionale Veramente”, com’è stato ritrovarsi dall’altra parte della barricata e in qualche modo salire in cattedra?
E’ stato molto bello e delicato: sai, ovviamente, Selvaggia Lucarelli è un’opinionista di professione, Diego Abatantuono è uno che c’ha quarant’anni di esperienza, io sono più giovane e ho cercato di portare quello che era il mio vissuto. Infatti mi hanno accusato un po’ di buonismo, ma d’altronde i comici che vengono definiti buonisti sono persone molto spesso fragili: uno quando fa il comico espone anche la propria insicurezza, la propria fragilità, quindi sono felice di essere stato buono, in un certo senso. E’ stata una bellissima esperienza e mi sono accorto che in giro ci sono tanti fantasisti, tante persone che hanno voglia di ridere. Alla fine è sempre lo stesso concetto: la risata può essere assolutamente terapeutica e diventa non solo un valore, ma anche una risorsa.
Adesso veniamo al teatro: ci parli dello spettacolo “Un grande abbraccio”?
“Un grande abbraccio” è uno spettacolo che io ho scritto e diretto con Lamberto Giannini a Livorno, insieme alla compagnia teatrale Mayor Von Frinzius che è frequentata perlopiù da attori con disabilità, è un varietà in cui io voglio fare una grandissima performance con effetti speciali e quant’altro, invece, ci sono questi attori straordinari che me lo impediscono in tutti i modi dimostrando di essere molto più abili e molto più bravi di me. Questo è una rappresentazione che vanta, oltre me, quattro attrici livornesi e sei attori con disabilità (cinque con la sindrome di Down) e, come tanti sanno, se c’è una cosa bella è quella dell’abbraccio. L’abbraccio è anche qualcosa che vuol dire accoglienza e perdono, un abbraccio è un gesto molto importante oggi – visto che siamo in una società popolata da social network e realtà virtuali –. Alla fine, infatti, ci ritroviamo tutti quanti abbracciati sul palco: pubblico e attori, senza distinzione. La funzione del teatro, secondo me, è proprio questa: mettere in comunicazione il pubblico con chi sta sul palco e viceversa abbattendo delle barriere e, soprattutto, cercando di essere tutti quanti abili e non (dis)abili a fare qualcosa. L’abilità su cui noi puntiamo è la felicità, probabilmente il disabile non è uno che ‘non è capace di’ è soltanto qualcuno che – purtroppo – incontra qualcun altro che gli dice ‘te non sei capace di’. Ecco, secondo me, questa barriera è totalmente inutile: bisogna cercare di capire che dobbiamo essere tutti quanti abili a migliorarci e a essere felici e darsi un grande abbraccio.
Com’è lavorare con persone con disabilità, cosa ti hanno dato in più o in meno e come ti sei relazionato con loro per preparare ogni scena?
Mi sono relazionato con loro in maniera spontanea e vera, come mi relaziono con chiunque lavoro, con la differenza che mi sono divertito molto di più perché è stato tutto fantastico e giocoso pur essendo professionale. Devo dire che sono stati tutti precisi e puntuali, anche più di me (ride) e il valore in più è stato quello della spensieratezza, nel senso che ci si abbracciava spessissimo (il titolo viene anche da questo) e ci si dichiarava molto più spesso i sentimenti che si provavano. Quindi era difficile non finire una prova dicendo se ci eravamo divertiti o no, era difficile non dirsi “sono felice di rivederti domani”, oppure “grazie mille, ti voglio bene”. Loro mi hanno insegnato a palesare i miei sentimenti senza paura. Nel bene o nel male.
Secondo te, quale può essere un modo per sdoganare la tematica della disabilità e quanto è difficile – in certi ambiti – far passare un messaggio differente che non scada in banalità o in ridicoli pietismi?
Guarda per sdoganare qualcosa, in Italia, oggi, ci vuole solo Maria De Filippi! Lei è l’unica che riesce a sdoganare una tematica: io ricordo quindici anni fa, quando cominciai a fare televisione, volevo lavorare con gli anziani e mi veniva risposto “No, gli anziani sono tristi. E’ brutto vedere gli anziani in tivù”, poi lei ha fatto Uomini e Donne con gli anziani e ora sono ovunque. Ma è giusto così, lei è l’unica in Italia che può sdoganare qualcuno, quindi bisogna che lei riesca a fare uno spettacolo o qualcosa con le persone con disabilità. Io, ovviamente, sono molto meno potente e sicuramente sono meno tonico rispetto a lei nel preparare le cose. Credo soltanto che fino a quando un Paese vedrà un deficit nella disabilità, sarà sempre un Paese non in grado di crescere e migliorarsi. La disabilità deve essere una risorsa: personalmente ho lavorato molto sul concetto di resilienza, sono testimonial dell’handbike, credo sempre di imparare qualcosa da chi trasforma un limite in opportunità. Quindi spero e mi auguro che ci sia qualcuno con più cultura di me e più potere che possa sdoganare il concetto di disabilità nello spettacolo: l’idea che la disabilità, legata al teatro o al cinema, sia una cosa triste è una cavolata perché non c’è niente di triste nell’esposizione di una propria condizione anzi è qualcosa di straordinario. Significa dare valore ad una condizione di vita, la differenza tra condizione e malattia avviene proprio quando qualcuno che guarda ti giudica. Se non c’è il giudizio, ma solo l’accoglienza, allora diventa una risorsa. L’integrazione avviene se c’è un’esclusione, secondo me non bisogna nemmeno integrare ma capire che effettivamente siamo tutti uguali. Spero che queste condizioni di vita vengano proposte e messe in mostra il più possibile, io nel mio piccolo mi ci impegno e mi sento, a volte, una mosca bianca ma farò di tutto affinché possa continuare.
Esistono tanti comici con disabilità (ad esempio David Anzalone) che trovano poco spazio in tv, secondo te perché?
Io conosco molto bene David Anzalone, ho letto anche un suo libro ed è eccezionale. Io gli avrei dato molto più spazio, lui è stato soltanto una volta da Fazio, è persona che stimo e ammiro. Spero di incontrarlo presto. Comici con disabilità non trovano spazio in tv perché c’è paura, non si vuole correre il rischio che quella comicità venga travisata e non venga digerita dal pubblico. Sono soltanto le paranoie, le frustrazioni e l’ignoranza di un certo tipo di dirigenti che lavorano in tv e non si rendono conto che, invece, sarebbe un’operazione culturale e sociale straordinaria. Con questo non voglio dire che il comico con disabilità è più bravo, è semplicemente un comico. Non faccio distinzione né in meglio né in peggio, il metro di giudizio è lo stesso: se un cameriere porta male i piatti, è scarso con o senza disabilità; ugualmente, se fa bene il suo lavoro, è bravo a prescindere dal proprio stato. E’ il concetto di normalità ad esser sfuggito di mano. Come diceva Basaglia: “Visto da vicino, nessuno di noi è normale”.
In “Fuga di cervelli” hai raccontato una storia d’amore e d’amicizia al cinema, nella vicenda ci sono persone con disabilità: hai trovato difficoltà nella scrittura delle battute? Quanto è difficile far ridere sulla disabilità senza urtare la sensibilità del pubblico?
Io non ho avuto nessun tipo di censura e nessuno si è lamentato o sentito offeso in qualche modo dalla mia comicità su certi temi. Questa cosa mi ha inorgoglito ancor di più del successo del film. In “Fuga di Cervelli” c’è Andrea Pisani che interpreta un personaggio sulla sedia a rotelle e io interpreto un non vedente, ci siamo preparati in modi diversi: lui stando sulla sedia a rotelle per un po’ di tempo si era allenato, io ho cercato di passare un paio di mesi – andando saltuariamente – all’Istituto Nazionale Non Vedenti di Milano (dove ho realizzato anche un piccolo documentario, si chiama “Cosa sognano i ciechi”, è su Youtube). Resto sempre convinto del fatto che si possa scherzare su tutto, il non scherzare su un argomento significa comunque emarginarlo. La risata e la comicità su qualcosa non è uno svilimento, ma un valore. Io sono felicissimo di aver fatto un film comico con la disabilità all’interno. Se su una patologia viene applicata una certa sensibilità, ci si può scherzare eccome. Chi si offende è perché ha dei problemi irrisolti a livello personale, ogni cosa diventa insulto nella malafede di chi la pronuncia. Io credo che la comicità si debba applicare anche alla disabilità, bisogna farlo con coraggio e sperimentazione, bisogna farlo anche andando contro certi pareri che sicuramente non saranno positivi. Laddove c’è comicità o sorriso non ci può essere cattiveria. Sarebbe importante se i tanti ragazzi con disabilità che frequentano le accademie e le scuole di cinema potessero riuscire ad emergere in una commedia cinematografica.
Secondo te, siamo un Paese troppo bigotto in tal senso rispetto ad altri?
Siamo un Paese bigotto, siamo l’unico Paese al mondo che non trasmette le Paralimpiadi, siamo indietro anni luce rispetto a tanti paesi occidentali e continuiamo a pensare che una persona con disabilità abbia qualcosa in meno perché siamo un Paese pragmatico che quantifica, che si lamenta e che si vergogna ancora di certe cose quasi come se avesse un senso di colpa per certi aspetti. D’altronde, siamo un Paese che fino a cinquant’anni fa metteva i sordomuti in manicomio. Questo la dice lunga sul senso civico e sul senso della nostra accoglienza rispetto a certe problematiche.
Cosa vorresti raccontare ancora come regista?
A me piacerebbe raccontare un sacco di cose, mi piacerebbe parlare di molti argomenti delicati. E’ difficile, però, perché quando io propongo certe tematiche mi guardano come se fossero cose sempre tristi o svilenti: io ho scritto un libro – si chiama “Tutto bene” – che parla di un padre che non sapeva di essere padre e soffre regolarmente di attacchi di panico, oppure ho scritto un’altra storia importante sull’anzianità: due anziani, uno dei due a un certo punto rimane vedovo e si ritrova solo, quindi basata sulla comicità e sull’inadeguatezza che è data dalla solitudine. Ci sono tanti argomenti sul sociale che dovrebbero esser trattati, però, appunto siamo un Paese che si pregia tanto di essere solidale, ospitale e buono, in realtà abbiamo delle chiusure mentali clamorose e ci piace sentirci in colpa. Non ho mai capito perché. Cioè, per esempio, un film come “Mi chiamo Sam” nel cinema italiano non si farà mai. Così come non si farà mai un film tipo “Quasi Amici”, perché siamo tutti bravi a tessere le lodi ai francesi, il fatto principale è che in Francia, in Spagna, in America, in altri paesi sono molto più al dentro rispetto a noi nell’affrontare certi argomenti e lo fanno con grande disinvoltura, senza polemiche sui giornali o sui social e soprattutto lo fanno con una cosa che in Italia manca tantissimo: la leggerezza. Affrontare i temi con leggerezza non vuol dire essere superficiali, significa affrontarli in modo accogliente e colto con quel punto di vista che permette, appunto, come dicevamo prima di sdoganarli e farli divenire popolari.
Se dovessi scegliere: teatro o cinema?
E’ come se mi chiedessi “a casa tua ti piace più il salotto o la cucina?”(ride), sono due ambienti dove mi trovo talmente a mio agio che non so mai quale scegliere! Io credo che, però, per affrontare certi temi sarebbe meglio il teatro perché ti dà un emozione particolare: dal vivo rende diversamente. Il cinema rimane. Il cinema è una notizia che non finisce mai, è un qualcosa che continua a ripetersi ogni volta che accendi lo schermo. Vedere, però, soprattutto quando si parla di disabilità, un attore a teatro credo sia davvero una cosa importante perché si capisce bene quanto alta possa essere la concentrazione, lo sforzo e l’abilità vera che si ha nella recitazione anche come una forma terapeutica importante perché io sono sempre convinto che il teatro, in qualche modo, curi sia l’animo di chi lo va a vedere sia l’animo di chi lo fa.
Dacci qualche anticipazione sul futuro: dove ti vedremo la prossima stagione?
Sto preparando due film: uno è finito, si chiama “I babysitter” che uscirà il 28 ottobre, con Diego Abatantuono, Francesco Facchinetti, Francesco Mandelli e i Panpers ed è molto divertente. L’altro film, invece, è “Natale a Londra” che mi vedrà nelle sale insieme a Lillo&Greg dal 15 dicembre. Ovviamente, il 13 agosto sono a Villa Ada, a Roma, con “Un grande abbraccio”. L’anno prossimo sarò coinvolto anche in alcuni progetti televisivi interessanti.
Articolo di Andrea Desideri