Fa ricette tutto il giorno, ma non è la Clerici. S’incontra due, tre volte all’anno, a meno che non ci sia un motivo specifico, ma non è il commercialista. E’ il medico di famiglia, una figura che aleggia nelle vite di ognuno di noi: anzi, le scandisce. Infatti, prima si chiama pediatra e ti segue durante l’infanzia, poi cresci e diventa medico di base (conosciuto anche come medico curante o, appunto, di famiglia). Quest’evoluzione non è figlia soltanto di una mera questione anagrafica: la differenza tra medico e pediatra non la fa esclusivamente l’età del paziente in carico, bensì gli studi intrapresi. Il medico di famiglia deve conseguire un diploma di formazione specifico in Medicina Generale, il possesso ne costituisce un requisito necessario per l’iscrizione alla graduatoria unica regionale della Medicina Generale, finalizzata all’accesso alle convenzioni con il Sistema Sanitario Nazionale in qualità di medico di Medicina Generale. La sua mansione prevede di curare gli individui nel contesto della loro famiglia, della loro comunità e cultura, rispettando sempre l’autonomia dei propri pazienti. Deve avere anche una responsabilità professionale nei confronti della comunità nella quale lavora. Quando negozia piani di gestione con i pazienti integra i fattori fisici, psicologici, sociali, culturali ed esistenziali, servendosi della conoscenza e della fiducia maturata nel corso di contatti ripetuti.
Detto in parole povere, accompagna ogni individuo nel percorso di cure e analisi circa lo stato di salute. In passato era quasi come il confessore: sapeva tutto di una determinata persona e del suo organismo, malattie, disfunzioni, sintomi e criticità, gettando anche uno sguardo più ampio alla situazione familiare di ogni assistito. Non è escluso, infatti, che uno stesso medico possa avere in cura più membri di uno stesso nucleo familiare arrivando a tracciare un quadro clinico più vasto e dettagliato, in grado di fornire maggiori certezze circa l’ereditarietà di alcune patologie, ad esempio. Insomma, è una figura necessaria. Capace di curare e rassicurare con una prescrizione dalla grafia incomprensibile. Tale sicurezza, però, potrebbe presto svanire. Nel giro di sette anni, di fatto, venti milioni di italiani potrebbero dire addio al proprio medico di fiducia, che tradotto significa un paziente su tre senza dottore. Tutta colpa della burocrazia che spinge ad abbandonare la professione e al numero chiuso che scoraggia i giovani. Si stima che entro il 2023 verranno a mancare 16 mila medici di famiglia. A dare l’allarme è la Federazione dei medici di famiglia, l’Enpam, il solido ente previdenziale dei camici banchi, che col perdurare di questa fuga dalla professione qualche problema potrebbe cominciare ad averlo. Secondo i dati attuali, infatti, le Regioni che programmano l’accesso alla professione non vanno oltre i 900 borsisti l’anno, mentre i pensionamenti (sempre nello stesso settore) accelerano. Attualmente, nel nostro Paese, al nord si corre un rischio maggiore di rimanere scoperti: in Piemonte, ad esempio, nei prossimi sette anni lasceranno lo studio 1173 medici di famiglia, in Lombardia 2776, in Veneto 1600, in Liguria 527.
Alberto Oliveti – Presidente dell’Enpam – avverte: “Bisogna aumentare i posti nelle scuole post-laurea di medicina generale, altrimenti sul territorio rimarranno solo i pazienti”. Se non si trova una soluzione per far avvicinare nuove leve a questo ambiente, andremo incontro ad un cambiamento obbligato: bisognerà pensare necessariamente ad un nuovo sistema d’assistenza sanitaria che riesca a colmare ogni mancanza. I finanziamenti diminuiscono, la burocrazia ingarbuglia la passione, e a rimetterci presto non saranno solo gli studenti (le cattedre non si rinnovano e a loro restano le briciole) ma la società tutta. Curarsi sta diventando sempre più un privilegio quando, invece, dovrebbe (e deve) essere un diritto oltre che una necessità.
Articolo di Andrea Desideri